SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Fatto; 3. Difesa; 4. La Sentenza.
- Introduzione
Il licenziamento per giusta causa, disciplinato dall’art. 2119 c.c.[1], rappresenta uno degli strumenti più efficaci a disposizione del datore di lavoro per tutelare la sicurezza e l’armonia dell’ambiente lavorativo. Tuttavia, i criteri per la sua applicazione devono essere rigorosi e proporzionati.
- Fatto
Il caso ha origine da un diverbio litigioso sfociato in vie di fatto[2] tra una dipendente di un supermercato, con mansioni di banconista e assunta con contratto a tempo indeterminato (CCNL per i dipendenti delle aziende del terziario: distribuzione e servizi), e una collega con le stesse mansioni.
A seguito di un’accurata indagine interna, che ha coinvolto l’audizione di altri dipendenti presenti all’alterco, il datore di lavoro ha valutato la gravità dei fatti e ha deciso di licenziare per giusta causa una delle due dipendenti, ritenendo che il suo comportamento avesse compromesso irrimediabilmente il rapporto fiduciario, indispensabile per la prosecuzione del rapporto lavorativo. La dipendente licenziata ha impugnato il provvedimento, chiedendo al Giudice del lavoro di dichiarare la nullità del licenziamento, con conseguente dichiarazione di prosecuzione del rapporto di lavoro; domandando, inoltre, di ordinare all’imprenditore la corresponsione della retribuzione maturata dalla data del licenziamento al momento del ripristino; richiedendo, infine, la condanna al risarcimento del danno per licenziamento ingiurioso e, anche, la riassunzione o il risarcimento del danno ex art. 8 della Legge n. 604/1996.
- Difesa
La difesa dell’imprenditore si è basata su diversi elementi.
Il datore di lavoro costituitosi in giudizio per il tramite dello Studio legale Cerrito Avvocati ha, in primo luogo, dimostrato la legittimità del licenziamento dal punto di vista procedurale. La dipendente aveva ricevuto una contestazione disciplinare, che le permetteva di presentare giustificazioni, le quali, tuttavia, risultavano in contrasto con le testimonianze raccolte nell’audit interno.
In secondo luogo, ha provato la legittimità formale del licenziamento e la sussistenza della giusta causa, oltre alla proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti accaduti, con riferimento all’art. 229 del CCNL di riferimento, che prevede il licenziamento senza preavviso nei casi di “diverbio litigioso seguito da vie di fatto, anche tra dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell’attività aziendale”.
La difesa ha inoltre evidenziato che la condotta della ricorrente ha pregiudicato in maniera irreparabile, ai sensi dell’art. 2119 c.c., il vincolo fiduciario necessario per ogni rapporto di lavoro e, pertanto, la società non poteva più confidare nel futuro comportamento corretto della dipendente, la quale, aveva avuto una condotta violenta durante l’orario di lavoro.
- La Sentenza
Preliminarmente il Giudice adito si è pronunciato sulla domanda di reintegra, precisando innanzitutto che la disciplina applicabile alla fattispecie fosse l’art. 3 d. lgs. 23/2015[3], quello delle c.d. “tutele crescenti”. Nel caso in esame l’Onorevole giudicante ha, infatti, escluso la reintegra perché la norma suddetta la consentiva solo nelle ipotesi in cui fosse stata provata l’insussistenza del fatto materiale che, secondo la giurisprudenza di legittimità[4], si presume come inesistente non solo quando non si è materialmente verificato, ma anche qualora il fatto non abbia rilievo disciplinare.
In secondo luogo, il Giudice del lavoro ha confermato la sussistenza del fatto disciplinarmente rilevante. L’onere della prova spettava al datore di lavoro che ha dimostrato quanto accaduto tramite testimonianze orali che hanno confermato il diverbio litigioso.
Accertato il fatto, il Giudice ha poi valutato la proporzionalità della sanzione rispetto al comportamento addebitato, ricordando che non esiste un automatismo nell’applicazione della sanzione più grave, e che spetta al giudice valutarne la proporzionalità rispetto alla gravità dei fatti, delle circostanze e della colpevolezza del lavoratore[5]. E che tale principio regola anche le sanzioni disciplinari regolate dall’art. 2106 c.c.[6], che prevede l’applicazione della sanzione secondo la gravità del fatto.
Il Giudice prosegue sostenendo che, nonostante il comportamento del lavoratore corrisponda a una fattispecie tipizzata dal contratto collettivo, è comunque necessario esaminare concretamente la gravità della condotta, anche dal punto di vista soggettivo, come indicato dalla giurisprudenza[7].
Il licenziamento, quindi, deve essere proporzionato alla violazione, e altre sanzioni devono essere inidonee per tutelare l’interesse del datore di lavoro[8].
Nel caso in esame, secondo il Giudice del lavoro, la società ha invocato correttamente la disposizione del CCNL, che prevede il licenziamento senza preavviso per “diverbio litigioso seguito da vie di fatto” avvenuto in presenza della clientela, e ha ritenuto che la gravità del fatto, non smentita da prove alternative, potesse giustificare il rigetto del ricorso e quindi la conferma del licenziamento, con compensazione delle spese tra le parti, vista la complessità del caso.
Per tutti i motivi sopra esposti è sempre utile rivolgersi ad un avvocato esperto in diritto del lavoro già in fase stragiudiziale, così da ottenere una consulenza mirata in grado di prevenire maggiori difficoltà nella successiva fase giudiziaria.
[1] L’art. 2119 c.c., rubricato “recesso per giusta causa”, dispone che: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa. Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza”.
[2] Cassazione civile sez. lav., 10/09/2019, n. 22636 ha chiarito che: “Per “alterco”, invero, deve intendersi qualsiasi discussione, o litigio, animata e scomposta tra due persone; se connotato dalle cd. “vie di fatto”, invece, occorre che tale diverbio sia stato caratterizzato da un ricorso alla violenza, intesa come estrinsecazione di energia fisica trasmodante in un pregiudizio fisico, anche tentato, verso una persona o una cosa, ad opera di un uomo”.
[3] Nel caso in esame veniva applicato il c.d. Jobs Act perché la dipendente era stata assunta successivamente al 7 marzo 2015.
[4] Cass. n. 12174/2019
[5] Cass. n. 17259/2016, 17335/2016, 10842/2016.
[6] L’art. 2106 c.c., rubricato “sanzioni disciplinari”, dispone che: “L'inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell'infrazione”.
[7] Cass. n. 1977/2016, 1351/2016, 17259/2016 e 17335/2016.
[8] Cass., sez. lav., 18.09.2012, n. 15654; Cass., sez. lav., 11.05.2002, n. 6790.
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